La compagna (racconto)*

Aveva 60 anni. Aveva cominciato a bere all’età di ventidue anni, più o meno nel periodo in cui aveva abbandonato l’università per dedicarsi al gioco del bridge professionistico. All’inizio erano sbornie allegre, conviviali, con compagni e avversari conosciuti nei tornei e nei campionati; però loro, i compagni, festeggiavano occasionalmente; lui, invece, partecipava a tutte le occasioni.

A ventisei anni era entrato nel Blue Team, la nazionale: avevano vinto il titolo mondiale, subito, già nel primo anno; poi però il suo rendimento era divenuto alterno, e dopo tre anni l’avevano estromesso. Non era una tragedia; era ricco di famiglia e riusciva anche a mantenersi col solo bridge, e senza bisogno di essere nel Team: lezioni, partecipazioni, partite ad alto tasso; in ogni città, in ogni circolo c’è sempre qualcuno che vuole provare l’ebbrezza di farsi spennare da un fuoriclasse, invece che dagli amici consueti.

Aveva pubblicato un libro, il titolo era molto incoraggiante: “Diventa un campione”. Un mese dopo la pubblicazione era stato richiamato in nazionale per il campionato europeo: aveva fatto coppia con Gozzani, il più forte; il commissario aveva pensato che i due grandi avrebbero naturalmente trovato l’affiatamento, invece ne era sortita solo confusione. In qualche modo la squadra era arrivata in semifinale, ed il sorteggio li aveva favoriti: avrebbero giocato contro l’Islanda, che sembrava la più debole delle quattro finaliste, arrivata fin lì per caso. Fu un disastro: furono battuti in modo umiliante, in svantaggio incolmabile già a metà incontro. L’Islanda era tutt’altro che debole, in effetti: qualche anno dopo avrebbe vinto il titolo mondiale; però in quel momento occorreva un colpevole, e a torto o a ragione fu lui. Il libro era stato un fiasco costoso: aveva venduto appena trecento copie. L’editore aveva perso molti soldi perché, appena saputa la notizia della convocazione per gli europei, ne aveva subito ristampate seimila copie: tutte al macero, neanche i distributori di rimanenze lo avevano voluto.

Poi, gli anni si erano succeduti agli anni; tutti uguali, salvo la breve parentesi con Elena. Tutti velati dai fumi dell’alcool, ed ogni giorno simile al precedente: mal di testa al mattino e bridge al pomeriggio e alla sera, con whisky, o grappa, o vino, o qualsiasi cosa fosse utile a ridurlo barcollante.

Otto mesi prima aveva smesso di bere; non gli era servito un grande sforzo di volontà, in fin dei conti: più che altro aveva prevalso il disgusto per una vita che non serviva a nulla. Aveva anche smesso di giocare e di frequentare il circolo; in parte era stato per la prudenza di evitare luoghi e situazioni che avrebbero potuto indurlo in tentazione; in parte era dovuto al disinteresse. Il bridge non lo attirava più. Trascorreva le sue giornate camminando per la città, senza meta e senza scopo.

Ora, per caso, era capitato davanti ad un circolo che non conosceva. E infatti la targa a lato del portone – Bridge Club – era lucida e nuova. Era entrato: dopo un breve corridoio con delle poltrone c’era un salone con una dozzina di tavoli; tutti vuoti tranne uno; erano le tre del pomeriggio, ancora presto. I quattro che giocavano erano tre ragazzi ed una ragazza, tutti e quattro molto giovani, sui venti anni. Si avvicinò e si mise a guardare, rimanendo in piedi. Erano principianti; al termine di una mano tra i due di una coppia sorse una discussione:

– Passi?! Non puoi passare, la mia dichiarazione era forzante!

– Ma che dici! Ma che dici!

Dietro di lui, una voce li richiamò – Ragazzi, perché, invece di litigare, non chiedete al Maestro? Buongiorno, Aldo.

Si voltò. Era Federico Martini, due volte campione italiano; gli era antipatico, ma senza una ragione, non gli aveva mai fatto nulla; però dopo la sua uscita dal Team era subentrato lui. I quattro lo guardarono stupiti: Maestro? Poi la ragazza lo riconobbe.

– Aldo Capponi! Maestro Capponi!

Si alzarono tutti, eccitati di fronte a quella figura per loro leggendaria. Gli vollero stringere la mano, tutti, a turno; quasi comici, nel loro entusiasmo, ma lo stavano mettendo in imbarazzo, e lo infastidiva il sorriso compiaciuto di Martini. Gli chiesero di questo e di quello, e come si doveva giocare questa e quella mano; ma lui si faceva pagare per dare pareri! Ma non poteva rifiutarsi, e spiegò loro come avrebbero dovuto fare; e poi quelli ancora, e gli chiesero di lui, della sua vita, di cosa faceva, e se, e quando pensava di tornare in Nazionale: come se fosse dipeso dal suo umore!

– Ragazzi, piano! – Martini cercava di contenerli, divertito – Non parlate tutti insieme, fatelo respirare, almeno!

– Lo sa cosa ho saputo? – Gli disse uno di loro – Si dice che Gozzani non ha mai sopportato di averlo in squadra perché non accettava il fatto che lei gli fosse superiore.

A sentirlo solo nominare, il suo rivale, non poté trattenere una smorfia d’irritazione; ma si riprese subito.

– Sono sciocchezze. Gozzani ha vinto quattro titoli mondiali: non è secondo a nessuno.

I ragazzi protestarono contro la sua modestia – Contro l’Islanda – proclamò la ragazza, gli occhi ardenti – potevamo vincere! Ho visto tutte le mani, lei non sbagliò nulla!

La guardò. Cosa poteva aver capito, questa principiante, di mani giocate da campioni internazionali? E sapeva ben lui quanto aveva sbagliato. E poi dove le aveva trovate, mani giocate trent’anni prima: possibile che fosse andata a cercarsi i vecchi bollettini federali? Mentiva: la ragazza parlava per sentito dire, non aveva visto nulla; mentiva per rendersi interessante agli occhi del campione. Però rivide Elena, in lei, e sentì la stretta del rimpianto, gli salirono le lacrime agli occhi. Si sentì soffocare, doveva uscire! Scappò via, lasciandoli stupiti.

In strada si sedette in una panchina per riposare: da un po’ di tempo gli capitavano attacchi di affanno, prima o poi doveva decidersi a parlarne con un medico.

Quel circolo non gli piaceva; i ragazzi gli avevano fatto festa, ma quando si era avvicinato, quando ancora non l’avevano riconosciuto, manco l’avevano salutato. Maleducati. Ma no, forse poteva capirli: chi sta giocando a bridge non si accorge di quanto gli avviene intorno. Ma allora perché quel senso di fastidio? La ragazza. Era stato a causa della ragazza, ma non per lei: gli aveva ricordato Elena. Quindici anni prima, quando l’aveva conosciuta, Elena l’aveva guardato così. Ma lei era diversa…

Quindici anni prima era stato squalificato per due mesi: durante un torneo aveva litigato con l’arbitro e gli aveva dato del cretino. La squalifica lo escludeva dalle gare, ma non gli vietava l’accesso al circolo, però l’arbitro era il vicedirettore dello stesso circolo, e lui, in collera, non ci era più andato per molti mesi, deciso a non rinnovare l’iscrizione. Poi un amico gli aveva telefonato:

-…Suvvia, Aldo! Avevi ragione tu, ma la decisione dell’arbitro va accettata senza discutere, anche se è sbagliata!

E la crisi era rientrata. Un sabato, era la seconda volta che tornava al circolo dopo il volontario esilio, vide un tavolo circondato da molti spettatori in piedi: doveva esserci qualche grosso nome. Si avvicinò, gli fecero spazio: infatti c’era Gozzani. Avevano terminato, stavano facendo i conti; Gozzani alzò gli occhi, lo vide – Ciao Aldo – freddo come di consueto. Gli altri lo salutarono con più calore, ma sempre con la prudenza di chi non sa che aria tira; Bruno Allegri, il compagno di Gozzani, invece lo provocò sfrontatamente.

– Stavamo giocando a mille lire a punto. Loro – indicò gli avversari con i pollici rivolti in fuori – hanno capito che non era il caso. Vuoi provare tu?

Allegri era un buon giocatore, ma almeno due gradini sotto di lui. Avrebbe voluto ricacciargli in gola tanta arroganza, ma non aveva un compagno fidato: affrontare Gozzani con un compagno qualsiasi, a quel tasso, era cosa per ricchi spreconi. Gli altri due si erano alzati, intanto, lasciando un assegno ciascuno ma per nulla contrariati: avevano pagato, ma avevano giocato contro il Campione.

– Allora? – Incalzò Allegri.

– Non ho compagno, lo vedi anche tu; altrimenti avrei accettato volentieri.

– Non hai compagno? Lo troviamo subito! – Si guardò intorno – Chi vuole fare il compagno di Capponi in una partita a mille lire? – berciò – Chi se la sente? – Scoppiò a ridere, tronfio della posizione di prevalenza in cui si trovava. Si rivolse ad una ragazza di circa venti anni, seduta alla sua sinistra – Elena, lui è Aldo Capponi; ha scritto un libro nella cui prefazione assicura che, leggendo il libro, si diventa campioni. Io, purtroppo, non l’ho mai letto – scosse la testa con comico disappunto – Ma ho letto la prefazione! – Rise sguaiato, e si voltò verso gli altri che facevano capannello, urlando scompostamente – C’è qualcuno che ha letto il libro di Capponi? E’ desiderato con urgenza!

La ragazza lo guardava; lui si allontanò dal tavolo, trattenendo la collera: gli conveniva star zitto, la squalifica aveva consolidata la sua già illustre fama di attaccabrighe. Andò al bar, nella sala attigua: erano le cinque; ordinò una grappa, la prima della giornata. Mentre il cameriere gliela serviva, gli chiese chi fosse quella Elena.

– E’ apparsa due mesi fa: non gioca mai; viene il sabato e la domenica e guarda gli altri giocare; se la invitano, rifiuta sempre. Forse sta imparando e non osa ancora mettersi al tavolo.

Prese il bicchiere e se lo portò al tavolo dei giornali; si era appena seduto quando arrivò la ragazza; la guardò dubbioso, mentre quella, sicura, gli si sedeva di fronte.

– Ho raccolto la sfida – Disse.

– Prego?

– Ho raccolto la sfida – ripeté lei – mille lire a punto. Lei ed io contro…

– Che? Che ha fatto?!

– Io ho letto il suo libro. Posso giocare con lei. Possiamo competere!

– Ha letto il mio libro?! – Lei lo fissava: febbre negli occhi. Questa è matta, pensò – Signorina, il signor Allegri scherzava, ovviamente. E dubito che Gozzani…

– Hanno accettato. Ci danno mezzora di tempo per accordarci sul sistema. Ma naturalmente giochiamo il suo, quello del libro.

– Co…cosa? Hanno accettato di…e chi paga, per lei? E pensa davvero che dopo aver letto un libro si possa sfidare un pluricampione del mondo? Ma non possono aver accettato! Allegri è un buffone, ma Gozzani…ha capito male, la stanno prendendo in giro…ma lei, chi è?

Aveva imparato a giocare a bridge da bambina: le aveva insegnato la nonna, una campionessa americana, un nome famoso. Elena era nata e vissuta negli Stati Uniti, ma la madre era italiana; sei mesi prima era morto il padre e la madre era tornata a Roma, la sua città, portandola con sé.

-…Ho ventidue anni, sono maggiorenne. Ed ho soldi: giocherò del mio.

– Signorina: apprezzo il suo entusiasmo, ma se lo scordi. Quella frase, quella stupidaggine nella prefazione l’ha messa l’editore, non io. Bisogna studiarne tanti, di libri: ci sono autori come Chiaradia, Reese, Trezel, Romanet…

Li aveva letti tutti.

-…Non basta! Ci vogliono anni di esperienza…

Giocava da quindici anni: ne aveva sette, quando aveva iniziato.

– Signorina: è impossibile! – Si alzò dal tavolo come per sfuggirle, ma lei lo seguì.

– Maestro, lo conosco a memoria il suo libro, e non solo: conosco la sua filosofia; lei non ha solo scritto un libro di tecnica, c’è la sua anima, in quelle pagine! Io la capisco, la capisco come se le leggessi nella mente. Vuole una dimostrazione?

Era uscito dal circolo, ma lei lo seguiva e lo tratteneva per un braccio; esasperato, si liberò con uno strattone.

– Ma fammi il piacere, ma cosa vuoi dimostrare! Sei solo una ragazzina presuntuosa!

Lo lasciò, ma gli si mise davanti.

– Mi ascolti; poi me ne vado, ma ascolti questo: il capitolo dell’intervento sull’apertura avversaria è il sesto; il capitolo dell’apertura in sbarramento è il quindicesimo, molto più in là. Ma lei li ha scritti insieme: erano uno stesso capitolo, in origine, nel manoscritto; dopo li ha separati e revisionati.

La guardò a bocca aperta. Era vero: l’intervento e l’apertura di sbarramento sembrano materie affatto diverse; lui, invece, era convinto che fossero regolate da una logica comune. L’editore, però, l’aveva pregato di dividere i due argomenti in capitoli distinti; temeva che i lettori si sarebbero confusi.

– Chi glielo ha detto?

– Non mi sbaglio, vero? – Sorrise felice – Lo si capisce: si vede il filo logico – Gli rimise la mano sul braccio, delicatamente – Lo vede? Sono io la sua compagna di bridge: mi riconosca, la prego.

Sbuffò – Signorina, si chiama Elena, giusto? Elena, ascoltami: è una pazzia. A mille lire a punto, in un pomeriggio sfortunato, anche contro avversari di pari qualità si possono perdere milioni!

– Posso permettermi di perdere, ma li batteremo; forse non oggi: io sono certa di essere la sua migliore compagna possibile, ma non abbiamo mai giocato insieme, e sarà inevitabile qualche incomprensione. Come vede sono realista; però la coppia più forte siamo noi. Su: andiamo!

Giocarono. Era brava, Elena: talvolta ingenua, talvolta eccessivamente aggressiva, ma aveva un grande bagaglio tecnico e non si distraeva mai. Persero, ma non molto. Cenarono insieme, quella sera, e dopo parlarono a lungo; erano eccitati e felici come due che, al primo sguardo, avessero scoperto di essere innamorati. Lui, finalmente, per la prima volta nella vita, aveva trovato un compagno adatto. Lei era entrata con pieno diritto nel tavolo dove giocavano i suoi miti di bambina, dei quali, evidentemente, la nonna campionessa le aveva raccontato nelle fiabe che le nonne raccontano alle nipotine per farle addormentare:

“…E il lupo cattivo, con due assi grandi grandi…

Fu un anno di vittorie. Vinsero il campionato italiano a coppie assoluto; vinsero il campionato europeo a coppie miste ed arrivarono quarti in quello assoluto. Trovarono ingaggio in una squadra che non aveva grandi ambizioni e la portarono al secondo posto del campionato italiano a squadre: furono superati solo dalla squadra di Gozzani, che, di fatto, era la Nazionale. Studiavano per tutta la mattinata a casa di lui; dopo pranzo talvolta rimanevano a studiare fino a sera; talvolta uscivano per giocare al circolo, ma solo in partite organizzate, con avversari molto forti.

Beveva di meno; sentiva il bisogno di trattenersi, sebbene lei non avesse mai obiettato alcunché. Poi, si accorse che gli stava accadendo qualcosa: aveva spesso insegnato a giovani, ma il rapporto con Elena era diverso; non la vedeva come un’allieva; la sentiva sua pari, quasi una confidente, quasi una…inorridiva quando il corso dei pensieri prendeva quella piega così inquietante: Dio mio, ho quarantacinque anni e lei ventidue: una generazione di distanza!

Una sera, era la fine di maggio, fecero molto tardi.

– Sono così stanca. Non me la sento di attraversare Roma; mi fai dormire qui?

– Eh? Ah, sì…sì, se sei stanca…

Guardò verso il divano, incerto, chiedendosi come trasformarlo in letto; non l’aveva mai utilizzato a quello scopo; e non sapeva se era opportuno che ci dormisse lui e cederle il suo letto o il contrario. Ma Elena si alzò, si diresse verso la camera; si fermò sulla soglia – Vieni?

Svegliarsi all’alba. Vederti vicina a me: il capo sul guanciale, accanto al mio, mi hai sorriso. Ho baciato quel sorriso, poi mi sono ritratto, per vedere nei tuoi occhi la gioia di essere la mia donna; mi sono accostato ancora, un altro bacio lieve, ti ho guardata, ho appoggiato le mie labbra sulle tue. Morbide. Socchiuse, ho sentito il calore del tuo respiro. Ho sentito il calore del tuo corpo che si spingeva verso me. Ho sentito la morbidezza del tuo petto sul mio. Ti ho toccata. Mi hai guardato, volevi vedere nei miei occhi il riflesso del desiderio che sentivi nelle mie carezze

Si alzò dalla panchina, si diresse verso casa. Ricordare era doloroso. Da anni aveva imparato a controllare quei pensieri, quelle immagini; a respingerli appena si affacciavano. Qualche volta però prendevano il sopravvento, come adesso: e dopo le memorie di quando era stato amante di una donna che lo aveva amato, compagno di una compagna che lo aveva capito, giungeva il ricordo dell’addio.

Elena dovette accompagnare la madre negli USA, a Boston, dove aveva la casa; tornò dopo quindici giorni; lui andò a prenderla all’aeroporto. Tra baci ed abbracci, lei rivelò che…

-…Ho fatto un torneo a coppie; ho fatto il Cavendish.

– Eh? – Si staccò, la guardò sbalordito – Eh…che?! – Balbettò – Ma…ma non eri andata a Boston?!

Il “Cavendish” è il più importante torneo del mondo ad inviti, con premi molto alti; ma si gioca a Las Vegas, nel Nevada, non a Boston. Come ci era capitata? Chi l’aveva invitata? Con chi aveva giocato? E perché non gli aveva detto nulla?

– Me l’aveva chiesto Gozzani, ho giocato con lui.

– No, Elena, no! Non puoi veramente aver fatto questo, no! E lo sapevi prima di partire, mi hai mentito!

Lei taceva, la testa bassa. Le prese il viso tra le mani, glielo alzò per costringerla a guardarlo.

– Come vi siete piazzati? – Vide la risposta nella sua angoscia – Avete vinto, vero?

Lei annuì; piangeva.

– Ma che bravi! – Si allontanò di un passo, e parlava a se stesso, scuotendo la testa – Bravi davvero, congratulazioni! Ed entrerai nel Team, questo è certo: non esiste nessuna nazionale tanto forte da poter rinunciare ad un vincitore del Cavendish. E brava Elena! Hai trovato la porta d’ingresso giusta, ora non hai più bisogno di me. Beh, ciao: ti faccio tanti auguri.

Aveva girato i tacchi e se n’era andato, piantandola con tutte le valigie in mezzo all’atrio.

Le immagini di quel momento, all’aeroporto, furono la sua tortura negli anni che seguirono. Già il giorno dopo, sbollita la rabbia – e riemerso da una sbronza colossale – si era vergognato di tanta meschinità. Ed era stato anche stupido. Avrebbe avuto tutto da guadagnare dal suo ingresso in nazionale; lei aveva la sua stessa mentalità, non poteva durare con Gozzani, avrebbero dovuto richiamare lui. Ma perché agire così, di nascosto? Perché non dirlo francamente? “Gioco il Cavendish con Gozzani”. Come avrebbe reagito? “Ah, sì? Allora, con me hai chiuso!”. Beh, doveva ammettere che avrebbe scatenato un finimondo in ogni caso.

La voleva cercare, ma non lo fece; pensava di incontrarla di nuovo al circolo o in qualche campionato; invece non la rivide più. Lei scomparve dalla comunità dei bridgisti; ne chiese notizie al presidente del circolo: era tornata in America.

Tre anni dopo ne seppe di più.

Al circolo si giocava il torneo di Natale; i più forti avrebbero fatto coppia con i più deboli. A lui toccò in sorte una signora di incapacità proverbiale, probabilmente la peggiore giocatrice di Roma. Questa donna aveva fatto tre volte il corso base; quando aveva chiesto di iscriversi per la quarta volta, l’istruttore l’aveva pregata di non farlo: “…Mi creda, signora: è inutile”.

Vinsero. Ebbero molta fortuna, ma furono anche bravi, tutti e due. Lei, incoraggiata dal fatto di fare coppia con un tale campione, si sforzò come non aveva mai fatto; lui ebbe grande cura della sua fragile compagna, evitando quelle azioni tecnicamente ineccepibili ma che avrebbero potuto confonderla. Alla premiazione, lei era commossa:

-…E’ stato come navigare guidata da un faro: io vedevo solo scure scogliere, poi passava il suo fascio e mi mostrava i varchi – La signora era insegnante di fisica nei licei, ma anche poetessa dilettante.

Poco dopo, terminati i brindisi di auguri, gli si avvicinò Gozzani.

– Così, tu sei un faro che illumina i varchi.

– La signora era emozionata – Gli rispose spiccio, ma un poco spiazzato: non era da Gozzani quel genere di provocazioni.

– Deve esserci qualcosa di vero, però. Una volta, Elena ti descrisse con un’immagine simile: mi disse che eri una guida luminosa.

Si guardarono in silenzio; lui voleva sapere ma non voleva chiedere; l’altro cominciò a raccontare.

Non era andata bene, al Cavendish: nonostante la vittoria era evidente che non avevano affinità. Avevano vinto per il fatto che le loro incomprensioni fuorviavano gli avversari, i quali, non potendo credere a certi strafalcioni da parte di una coppia tra le più quotate, li prendevano sul serio e finivano per sbandare a loro volta. Elena in nazionale? All’inizio era nel progetto; lei aveva posto una condizione: avrebbe giocato solo se fosse rientrato anche lui. Era possibile, questo; potevano formare una terna, Elena, Gozzani e lui, e giocare a rotazione. Però, dopo il cattivo esito del Cavendish – la vittoria non li aveva compensati dei commenti ironici degli avversari – tutto era sfumato. Lei gli aveva detto:

…Signor Gozzani, lei ed Aldo siete due fuoriclasse, ma molto differenti. Quando gioco con lei mi sembra di essere in una galleria buia, ma ho la sicurezza data dallo scorgere la luce dell’uscita; quando gioco con Aldo, però, la luce ce l’ho a fianco, passo dopo passo”.

Era arrivato a casa. Si sentiva sfinito, doveva sdraiarsi.

Quella sera, dopo aver parlato con Gozzani, le aveva scritto; aveva trascorso la notte della vigilia di Natale a scrivere. Parole difficili da trovare.

…Perdonami, Elena…”. Perdonami perché ho invidiato il tuo successo Perdonami perché, stupidamente geloso, mi sono sentito defraudato mentre tu, al contrario, stavi cercando di ridarmi il posto in Nazionale…

Aveva spedito la lettera all’indirizzo di Boston che conosceva; dopo due settimane era tornata indietro con la stampigliatura “Unknown addressee”, destinatario sconosciuto. Allora aveva scritto al più importante circolo di Boston, chiedendo se avevano notizie; le avevano. Elena Sobik era stata socia del circolo sin da bambina; un mese dopo il ritorno dall’Italia era avvenuta la disgrazia in cui aveva perso la vita, un incidente d’auto.

Si sfilò le scarpe senza slacciarle, facendo forza con la punta di una sul tallone dell’altra; si sdraiò sopra le coperte, senza spogliarsi; pazienza se si fosse addormentato vestito, ma ora aveva davvero bisogno di riposare.

Aveva letto questa lettera molte volte, in undici anni. All’inizio ne era stato sconvolto fino alla disperazione, poi l’aveva studiata con freddezza, come se fosse stato un difficile problema di bridge, ed aveva subodorato l’inganno: Elena non era morta. Offesa per essere stata maltrattata, aveva respinto la sua prima lettera. Era furba, la fanciulla: aveva previsto la sua mossa successiva, scrivere al circolo, ed aveva detto al presidente di rispondere in quel modo per non essere più disturbata.

Aveva rispettato la sua volontà, non l’aveva più cercata; ma qualche volta gli mancava tanto che si metteva seriamente a pensare ad un viaggio a Boston, entrare nella sala del circolo dove lei sicuramente andava a giocare tutti i giorni, una sala molto bella, la immaginava bella e grande, con ampie vetrate sull’oceano; le si sarebbe avvicinato silenzioso ed avrebbe atteso in piedi dietro di lei. Elena si sarebbe girata, l’avrebbe visto, gli avrebbe sorriso. Nulla avrebbe potuto più separarli.

 * racconto originale di Paolo Enrico Garrisi

 

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One Reply to “La compagna (racconto)*”

  1. Paolo non sapevo che scrivevi così bene…….
    Complimenti!!!!
    L’ho letto tutto di un fiato…..
    Bella storia

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