Italian Open Trials: Come costruire una Squadra

English version »

Paolo Enrico Garrisi 03In questo articolo tratterò di una questione che spesso è causa di problemi e proteste: la via per formare una squadra nazionale. Deve essere formata mediante tornei di selezione (cosiddetti trials), o deve essere scelta da un commissario?

1937. Budapest. Diciassette squadre Europee ed una Americana giocarono il secondo campionato del mondo a Budapest nel 1937. Anche l’Italia andò in Ungheria, piazzandosi quarta; la federazione italiana era stata fondata appunto in quell’anno col nome di Associazione Italiana Bridge (ABI). La finale fu vinta dall’Austria sulla squadra americana di Culbertson. Ambedue le squadre erano state scelte dai loro capitani, Paul Stern ed Ely Culbertson.

Molto più tardi, nel 1987, Alan Truscott scrisse che gli americani avrebbero potuto vincere con un’altra squadra, i Four Aces (David Bruce detto Burnstine, Howard Schenken, Merwyn Maier, B. Jay Becker). Questi erano più forti, infatti, anche perché Ely e Josephine Culbertson stavano divorziando e la loro crisi coniugale si era rovesciata sul tavolo da gioco.

Ma io non credo che, nel 1937, esistesse una squadra in grado di battere l’Austria. Era un sestetto di giocatori molto forti: Karl Von Bluhdorn, Hans Jellinek, Karl Schneider (l’inventore dello scarto rovesciato, chiamato “Il Mago”), Edward Frischauer, Walter Herbert e Udo von Meissl; giocavano un sistema innovativo studiato dallo stesso Paul Stern, la seconda edizione del Sistema di Vienna. In seguito, Eugenio Chiaradia riprese parti del sistema austriaco per il suo Fiori Napoletano.

1963-1965. Gran Bretagna. La squadra britannica per i campionati europei del 1963 a Baden Baden, in Germania, fu scelta da un comitato. All’inizio indissero un torneo di selezione a squadre; la squadra per Baden Baden sarebbe stata composta da due coppie della squadra vincente e da una della seconda. I vincitori furono, in ordine di coppia, Terence Reese, Jeremy Flint, Boris Schapiro e Ralph Swimer; secondi arrivarono Kenneth Konstam, Louis Tarlo, Maurice Harrison Gray e Adam Hiron. I primi tre nomi di ambedue le squadre erano grandi campioni; il quarto no. Konstam-Tarlo formavano una coppia forte, ma Harrison Gray era un vecchio esperto campione capace di fare coppia persino con la Signora Brambilla (un personaggio del classico di S.J. Simon “Perché voi perdete a bridge).

I selezionatori scelsero tre dei quattro vincitori e tre dei secondi, scartando Swimer e Hiron. Il risultato fu positivo, vinsero l’europeo, ma il modo era sbagliato; la selezione competitiva era divenuta qualcosa di arbitrario, e comunque non era necessario un torneo per capire che quelli erano i sei britannici più forti.

Due anni dopo, nel 1965, lo stesso comitato selezionatore doveva decidere la squadra da mandare alla Bermuda Bowl in Argentina; i vincitori di Baden Baden erano andati bene anche alle olimpiadi del 1964, perdendo solo contro l’Italia, la vincitrice, quindi la squadra poteva essere quella. Fu invece fatto un torneo di selezione, a coppie. Questa decisione può sembrare strana, ma c’era un problema di accoppiamento; Reese non voleva giocare con Schapiro ma con Jeremy Flint, il compagno con cui stava sviluppando il Little Major, un nuovo sistema completamente artificiale che a Schapiro non piaceva. Nel Little Major, 1♣ e 1 mostravano rispettivamente cuori e picche, ma il colore poteva essere terzo; 1 significava molto forte o molto debole (20+ oppure 3-6 punti); 1♠ stava per i minori. A causa di questo Schapiro era senza alcun partner naturale in quella squadra.

Le tre coppie qualificate, su dieci, furono Reese-Flint, Schapiro-Konstam, e Swimer con Albert Rose. Il comitato doveva prendere le prime due ed un’altra, non necessariamente la terza; invece, e senza chiedere ai giocatori, decisero di creare una nuova coppia: Rose e Harrison Gray. Quindi l’ingiustizia cadde di nuovo su Swimer.

Di nuovo il comitato aveva commesso lo stesso errore, disfacendo nei fatti ciò che era stato stabilito nelle regole che loro stessi si erano date. Dopo aspre polemiche – Rose si era rifiutato di partire – Swimer fu “recuperato” come capitano non giocatore, ma questa volta le cose non andarono bene per niente. Il progetto iniziale era di alternare le coppie: Reese-Flint contro gli italiani, e Reese-Schapiro contro Argentina e, oppure, contro gli USA; questo perché Reese voleva giocare il Little Major contro la squadra più forte. Ma Swimer decise che il compagno di Reese dovesse essere sempre Schapiro. Il resto della storia è noto; quando accadde che gli americani accusarono Reese e Schapiro di farsi segni con le dita, Swimer, il cui capitanato aveva povere motivazioni e poca autorità, non fu capace di difendere i suoi compagni di squadra.

1949-1957. Italia. La nascita del Blue Team. La questione italiana delle selezioni per torneo è piuttosto complessa; occorre partire dall’inizio per spiegare le crisi del 1963, 1964 e 1970, che più o meno direttamente furono provocate dalle selezioni, o che suggerirono l’idea di farle.

La prima partecipazione dell’Italia ad un evento internazionale dopo la guerra fu il campionato europeo del 1949; quella squadra fu scelta con un torneo a squadre: i vincitori furono Dussoni, Mazzitelli, Chiaradia, Ricci, Siniscalco, Zeuli. Gli ultimi quattro avevano vinto il campionato italiano del 1949 e avrebbero poi vinto anche quello del 1950; erano napoletani e già giocavano il Fiori Napoletano di Chiaradia; il sistema era nato nel 1944. Agli europei la squadra giunse quinta; prima fu la Gran Bretagna sulla Svezia.

Nel 1950 la federazione italiana stabilì che la squadra dovesse essere scelta da un commissario, ed elesse Enzo Boscaro di Genova. Al campionato europeo del 1950, che si tenne a Brighton (Inghilterra), andarono Baroni, Franco, Gallo, Socci, Siniscalco, Zeuli, e Boscaro come capitano non giocatore. Di nuovo quinti, di nuovo Gran Bretagna sulla Svezia. È da notare che Franco era Mario, non il più famoso Arturo; nel 1948 Mario Franco e il suo partner Michele Jovine avevano inventato il MarMic (così chiamato da MARio & MIChele), il primo dei sistemi con apertura debole, definiti anche come Passo Forte. Alla fine degli anni sessanta il polacco Lukasz Slawinski sviluppò e migliorò il Marmic.

Nel 1951 Carl’Alberto Perroux di Modena divenne capitano; l’Italia vinse il campionato europeo, a Venezia, con Eugenio Chiaradia, Pietro Forquet, Mario Franco, Paolo Baroni, Augusto Ricci e Guglielmo Siniscalco. Alcuni mesi dopo quella squadra fu battuta dagli americani nella seconda edizione della Bermuda Bowl, giocata a Napoli. L’anno successivo Perroux fu eletto presidente della federazione e cedette la carica di capitano a Paolo Baroni; la riprese nel 1954, e di nuovo la lasciò nel 1955, a Paolo Valenti. Perroux tornò capitano nel 1956, e tenne definitivamente la carica fino al 1969, l’anno del ritiro del Blue Team. L’Italia vinse l’europeo del 1956, a Stoccolma, e di nuovo sfidò gli americani, vincendo la sua prima Bermuda Bowl a New York nel 1957. I giocatori furono quattro napoletani – Eugenio Chiaradia, Mimmo D’Alelio, Pietro Forquet, Guglielmo Siniscalco – e due romani, Giorgio Belladonna e Walter Avarelli.

1961. Buenos Aires. L’arrivo di Garozzo. Nel 1961 Guglielmo Siniscalco, compagno di Forquet, dovette ritirarsi per impegni di lavoro, e questo avvenne solo due settimane prima della partenza per Buenos Aires per la Bermuda Bowl. Qui deve essere detto che i sistemi licitativi americani non erano specializzati come quelli italiani, e neanche come quelli europei: gli americani ancora ritenevano che giocatori forti dovessero necessariamente formare coppie forti. Perroux sapeva bene che la forza degli italiani era la forza delle coppie, quindi scartò l’orfano Forquet – che subì la sostituzione senza protestare – e telefonò a Benito Bianchi di Livorno, chiedendogli di entrare insieme al suo compagno Giovanbattista Brogi. Bianchi accettò entusiasticamente, ma chiese chi doveva uscire e perché. Quando seppe che era Forquet l’escluso, rifiutò di entrare. Trova un partner per Forquet, disse Bianchi, o anche non portare nessuno: quei cinque bastano, ma non guastare la squadra. Perciò Perroux tenne Forquet e chiamò un altro napoletano, Benito Garozzo; un esito molto fortunato di un serio problema.

1963. Saint Vincent. La crisi italiana. Nel 1962 Chiaradia andò in Brasile ad insegnare bridge, e questo portò alla rottura della sua coppia; D’Alelio, il suo partner naturale, si trasferì a Roma e iniziò a giocare il Fiori Romano con Belladonna e Avarelli. Quando Chiaradia tornò, Perroux decise di fare due terne: Chiaradia-Forquet-Garozzo, che dichiaravano Fiori Napoletano, e Belladonna-D’Alelio-Avarelli, col Fiori Romano.

In marzo 1963 saltò fuori un altro problema: Avarelli si ritirò, anche lui per lavoro (nessuno del Blue Team era giocatore professionista). Il lieto fine della sostituzione singola del 1961 suggerì la stessa strada, e Camillo Pabis Ticci, di Firenze, entrò senza il suo compagno Giuseppe Messina. La terna romano-fiorentina andava bene, così come quella napoletana, ma questa volta occorreva qualcosa in più: gli americani avevano una coppia formidabile, Howard Schenken e Peter Leventritt, che giocavano un sistema specifico e ben costruito, il Big Club.

Alla Bermuda Bowl del 1963, disputata a Saint Vincent, sia gli italiani sia gli americani distrussero Francia e Argentina, mentre cercavano di distruggersi a vicenda. Dopo sei di otto segmenti, con trentadue mani al termine, gli USA erano avanti di 21 IMP; non una montagna, ma quello che era impressionante era la loro determinazione a combattere su ogni carta, a non cedere un’unghia che non fosse bagnata di sangue. In aiuto dell’Italia, aiuto involontario, accorse il capitano USA John Gerber. Schenken e Leventritt avevano avuto una vivace discussione su una mano, perciò ebbe l’idea di dividere la coppia; nel segmento successivo Schenken dovette giocare con Nail. Il risultato fu 44-5 per gli italiani; nell’ultimo segmento si riformò la coppia, ma la squadra aveva perso la spinta; l’Italia vinse l’incontro di 19.

1964. New York. I Trials di Perroux. Per capire perché Perroux decise di fare trials per le Olimpiadi del 1964, dobbiamo guardare la situazione come appariva all’epoca. Il Blue Team era indubbiamente il più forte nel mondo, ma non era ancora riconosciuto come il granitico colosso che noi oggi sappiamo che era, e Perroux era preoccupato per il futuro, soprattutto dopo lo spavento di Saint Vincent, quando gli americani avevano già afferrato la coppa. Per giunta c’erano altri giocatori forti che scalpitavano per entrare in squadra, e alcuni erano davvero forti: Bianchi, Brogi, Messina, Franco, Jovine… inoltre Avarelli, che si era ritirato nel 1963, era ritornato dopo solo pochi mesi; quindi l’Italia aveva sette campioni per tre coppie, per non dir nulla degli altri in attesa. Perciò Perroux decise di fare trials.

I trials italiani, a coppie, ebbero luogo in marzo 1964: li vinsero Belladonna-Avarelli davanti a Pabis Ticci-D’Alelio. E Forquet-Garozzo? Solo quinti. Quindi una delle tre coppie più forti di tutti i tempi, almeno secondo Time Magazine nel 1997, non superò i trials italiani. Fortunatamente per l’Italia, Perroux si era riservato la prerogativa di scegliere una coppia, perciò furono ripresi. Eugenio Chiaradia non giocò i trials; non poté o non volle, e comunque non aveva più compagno; la sua partecipazione alla Bermuda Bowl del 1963, quella vittoria, sarebbe stata l’ultima sua apparizione in nazionale.

Nei successivi sei anni, fino al ritiro, Perroux non osò più fare trials.

2010-2012. I punti di vista di Versace e Sbarigia. Laura Camponeschi, fondatrice di Neapolitan Club, intervistò sui trials Alfredo Versace (ottobre 2010), e Silvio Sbarigia (marzo 2012). Versace rispose quando la squadra di Monaco non era stata ancora arricchita con stranieri, quindi l’Italia aveva quattro coppie: Lauria-Versace, Bocchi-Madala, Duboin-Sementa erano in squadra; Fulvio Fantoni e Claudio Nunes erano stati esclusi nella primavera del 2010.

Versace: Io sono molto favorevole all’idea delle selezioni: non porterei di diritto nemmeno Lauria-Versace ma farei una bella selezione per tutti. Questo anche per cercare di rilanciare un po’ il bridge anche all’infuori di questo gruppetto delle ‘quattro’ coppie. Le selezioni darebbero spazio ai giovani e forse sarebbero l’occasione per trovare altri sponsor. In Italia ci sono meno sponsor che negli Stati Uniti, ma gli sponsor si attraggono anche così, creando la possibilità di partecipare ai trials… (Intervista completa >>)

L’argomento dei giovani e la necessità di allargare il campo erano anche nel comunicato di Perroux del 1964; l’idea di attirare sponsor è nel comunicato dell’attuale presidente federale Gianni Medugno. (Leggi qui >>)

Sbarigia [sulla squadra open].In Italia vi sono teoricamente 4 coppie di livello mondiale, concretamente solo 3 dal momento che Nunes- Fantoni hanno per ora deciso di andare a giocare per Monaco. Le nostre tre migliori coppie sono oggi composte da 4 giocatori del team Lavazza (Bocchi- Madala Sementa- Duboin) più Lauria- Versace.  […] In Italia abbiamo tre coppie il cui livello è abissalmente superiore rispetto a tutti le altre. Le tre coppie di cui parlo hanno per titoli, classe e curriculum assolutamente diritto a rappresentare l’Italia in questa prestigiosa manifestazione. Fare le selezioni nella categoria open è una perdita di tempo e soldi. Mi sembra solo un’operazione di propaganda atta a strizzare l’occhio alle velleità del bridgista medio. Le selezioni sono ragionevoli in quelle nazioni che hanno almeno 5 o 6 coppie di pari livello come accade per esempio negli Stati Uniti, in Francia o in Polonia. Quando il valore delle coppie praticamente si equivale le selezioni diventano obbligatorie. (Intervista completa >>)

Quindi Versace e Sbarigia sono ambedue in favore dei trials, ma il primo pensa in termini di principio generale, mentre l’altro ritiene che, in Italia, adesso, i trials siano assolutamente inutili.

La via americana. Gli Stati Uniti sono la nazione più potente; non hanno quattro coppie grandi come le italiane, ma appena sotto il primo gradino c’è una gran quantità di giocatori che, prima o poi, possono divenire fortissimi. L’America presenta due squadre in Bermuda Bowl, selezionate in tre fasi.

La prima fase è la procedura che assegna le posizioni delle squadre nel torneo per nominare USA1; vengono valutati il rango dei giocatori e i risultati ottenuti dalle squadre nei principali eventi a squadre dei campionati americani, cioè i trofei Vanderbilt, Spingold e Reisinger. I risultati valgono meno se sono ottenuti con giocatori stranieri in squadra.

La seconda fase, cosiddetta USA1 trials, è un torneo con formula ad eliminazione diretta in cui alle squadre più forti sono assegnati i numeri più bassi, e gli accoppiamenti sono fatti con criterio più basso-più alto (1-16; 2-15; 3-14. etc). Questa è un’assicurazione contro il pericolo che le squadre più forti si massacrino subito a vicenda, e la sopravvissuta sia battuta dalla sfortuna contro una squadra debole. La terza fase, USA2 trials, ha la stessa formula e raccoglie le squadre che hanno già disputato USA1 fallendo la qualificazione.

Tutto questo ingranaggio assicura che le due squadre USA siano sempre forti, ma non garantisce che siano le più forti. Ho già detto che nel 1964 una delle tre coppie ritenute le più forti di tutti i tempi da Time Magazine, Forquet-Garozzo, non si qualificò nei trials italiani; le altre due coppie citate dalla rivista erano Hamman-Wolff e Rodwell-Meckstroth. Ora: Bob Hamman, Eric Rodwell e Jeff Meckstroth hanno vinto la Bermuda Bowl del 2009 (e quella del 2003, e molte altre prima ), ma non si sono qualificati, non nel 2011 – vinta dall’Olanda – e neanche nel 2013, vinta dall’Italia.

1970. Stoccolma. Quando Hamman-Lawrence giocarono Fiori Romano. La Bermuda Bowl del 1970 fu la prima dopo il ritiro del Blue Team, la leggendaria squadra capitanata da Carl’Alberto Perroux che vinse undici titoli e due delle tre olimpiadi. Nel 1970 l’Italia aveva ancora una buona seconda squadra, i campioni europei del 1969 (con Giorgio Belladonna), che si classificarono terzi nel 1970: Renato Mondolfo, Oscar Bellentani, Cesare Bresciani, Benito Bianchi, Giuseppe Messina; ma la Federazione ritenne che i trials avrebbero figliato una squadra migliore. I risultati furono i seguenti: i campioni europei rifiutarono di fare trials; altri forti giocatori non parteciparono per timore, si fossero qualificati, di dover subire un’umiliante sconfitta a Stoccolma. Altri giocatori, ancor meno forti, non ebbero timore di essere umiliati e fecero i trials, li vinsero, andarono e furono umiliati, quinti su cinque squadre.

A Stoccolma gli americani di Ira Corn erano così forti – Dallas Aces era una squadra nata per battere il Blue Team – che vinsero in anticipo la finale contro la Cina. Nelle ultime trentadue mani, ormai inutili, Giorgio Belladonna, andato come giornalista, invitò Bob Hamman e Mike Lawrence a giocare il Fiori Romano, e loro elegantemente aderirono.

Il Giocatore, la Coppia, la Squadra. In quest’ultimo paragrafo parlerò di due questioni. La prima è: che genere di trials, a coppie o a squadre? La risposta è a squadre. I risultati a bridge dipendono da fattori statistici, in quanto la migliore tecnica e il buon risultato potrebbero divergere una dall’altro; supponiamo ora che in un torneo a coppie ciascuna delle tre coppie più forti abbia l’80 per cento di probabilità di piazzarsi nei primi tre posti; questa percentuale probabilmente è troppo alta in un campo così fieramente competitivo come quello italiano, ma lasciamo stare. Ne segue che la probabilità che tutt’e tre le coppie entrino nei primi tre posti è del 51 per cento, e ancor meno considerando che una coppia possa subire lo zero in uno dei tre confronti diretti. Alla lunga distanza le coppie migliori emergerebbero comunque, ma il bridge non è così ricco come il calcio, i suoi campionati o i suoi trials non possono durare un anno. Questo spiega il quinto posto di Forquet-Garozzo nel 1964, e perché non fosse poi così imprevedibile.

La seconda questione è: quale che sia la strada percorsa, trials a squadre o scelta del commissario, cosa vogliamo ottenere, in concreto? Sembra ovvio rispondere che stiamo cercando sei giocatori forti che formino tre coppie armoniche, ma veramente questo è sufficiente per avere una squadra forte? No, non lo è. Una squadra è più dei suoi giocatori e delle sue coppie; la sua forza risiede in ciò che gli inglesi chiamano “chemistry” e che noi chiamiamo “amalgama”: la fiducia di ogni giocatore nei suoi compagni di squadra. Non è necessario che si trovino simpatici o che siano amici; occorre solo che, quando lo sfinimento induce nella tentazione di mollare, ciascuno possa pensare: “I miei compagni stanno tenendo duro”, e da questa certezza trarre la forza di resistere.

Un esempio di tale squadra è quella italiana che ha recentemente vinto la Bermuda Bowl (Lauria, Versace, Bocchi, Madala, Duboin, Sementa), ma mi sia permesso di riportare quello che io stesso ho scritto sulla squadra Bridge24 (Kalita, Nowosadzki, Jagniewski, Gawell), e sulla sua sorprendente vittoria nello Spingold di quest’anno:

“…Una squadra può essere più forte di quanto risulta dalla somma delle forze delle sue coppie. La regola generale può essere detta come segue: quando l’essere umano forma squadra, e quando le persone confidano l’una nelle altre, la forza della squadra è superiore alle sue parti. La storia non manca di esempi di ciò, ma per rimanere nel campo dei giochi vale la pena di ricordare quanto succedeva a scacchi, un gioco individuale, negli anni Sessanta e Settanta: l’Ungheria, con buoni giocatori ma mai campioni del mondo in individuale – Bilek, Csom, Forintos, Portish, Ribli, Sax – resisteva e spesso vinceva contro i giganti dell’Unione Sovietica: Spassky, Tal, Petrosian, Karpov, Korchnoi, e gli altri.”

I giocatori – questa è la conclusione – possono essere molto forti e formare coppie molto forti, ma è la squadra ed il modo in cui è stata formata che li può trasformare in unità vincente.

***

Paolo Enrico Garrisi

 

 Leggi gli articoli di Neapolitan Club sulle Selezioni >>

(Visited 827 times, 1 visits today)
Content Protected Using Blog Protector By: PcDrome.