Due Chiacchiere con Toni Mortarotti (intervista Parte Prima)

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Toni Mortarotti è un campione e un fortissimo giorcatore ma soprattuto un famoso insegnante e autore di Bridge, in sostanza un grande mediatore culturale di questo sport: da dove vogliamo cominciare? Dal fatto che sono, innanzi tutto, un appassionato del Bridge.

Ci racconti come nasce questa passione? Sei entrato nell’agonismo giovanissimo, vero?

Gioco a bridge da 44 anni, da quando ne avevo solo 13 e mezzo. La mia passione nasce al bar. Avevo degli amici che giocavano a bridge e che hanno coinvolto anche me che ero il più giovane. Giocavamo a carte al bar, ai tarocchi o al tresette e mi hanno proposto di giocare a bridge. Al pomeriggio mi han spiegato due regole e la sera siamo andati a giocare: quella sera stessa due della nostra compagnia hanno vinto il torneo, io invece arrivai terzultimo o penultimo.

La fai un po’ troppo facile Toni…

Eravamo ‘giocatori’ veri, gente che sapeva tutti i giochi di carte: il bridge è stato allora un corollario di altri giochi.

Mi stai dicendo allora che imparare a giocare a bridge è facile?

Facilissimo. E’ una cosa di una semplicità unica. Quello che serve, che è propedeutico e necessario per giocare a bridge, è conoscere le carte. A chi non ha questa conoscenza serve una didattica ed una metodogia in sintonia con le esigenze dell’allievo. Se uno non impara il bridge non è quasi mai per problemi propri ma quasi sempre per problemi derivanti da chi lo propone e da come lo propone. Certo che se uno è disinteressato non impara nulla: il bridge è una materia come un’altra, ci vuole passione serietà e studio. Se non studi non impari nulla.

Arriviamo così al Mortarotti grande insegnante e divulgatore di bridge. Hai un’esperienza pluriennale di insegnamento…

E sì, il primo corso l’ho tenuto nel 1968.

Per arrivare a tempi più recenti, ti va di raccontarci qualcosa delle lezioni che hai tenuto nel giugno scorso all’Università di Torvergata a Roma?

Il corso constava di quasi 50 lezioni. La finalità era quella di studiare come coniugare il bridge con i corsi curriculari universitari, in modo particolare con il corso di studi di Ingegneria. L’iniziativa ha avuto un ottimo impatto nei confronti di quei pochi allievi che si sono avvicinati e hanno seguito il corso.

Pochi allievi?

Sì, tanti non erano. Del resto era una situazione sperimentale. L’importante era la verifica della fattibilità, anche dell’organizzazione logistica.

Come nasceva quel progetto?

L’idea è venuta a Francesco Angelini, che ha nei confronti del bridge una passione grande e autentica, e al Prof. Bove, dati i loro rapporti con il Rettore di Facoltà. Dal 1991 io stesso ho ideato e fatto nascere il progetto ‘Bridge a Scuola’, facendo prima delle sperimentazioni a Torino e poi ottenendo la firma del capitolato d’intesa. E’ stata la prima volta che una disciplina associata al Coni, come siamo noi, ha avuto un ufficiale riconoscimento dal Ministero della Pubblica Istruzione. Dal 1993 al 1998 ho tenuto corsi di formazione per i precettori. Purtroppo come molte cose, per così dire all’italiana, anche questa ha avuto un’ottima progettualità e poi uno scarso interesse nell’essere realizzata.

Vuoi dire che il progetto ‘Bridge a Scuola’ non ha avuto i risultati prefissati?

Non li ha avuti assolutamente. E’ stato strumentalizzato, usato cioè solo per apparire. In realtà era osteggiato da molte persone che non ne capivano l’autentico valore.

Tu non sei contento allora di come sono andate le cose?

No.

A cosa è dovuto secondo te questo insuccesso? E cosa intendi per strumentalizzazione?

Molte delle persone che si occupano di Bridge non hanno la conoscenza del bridge nè tantomeno di ciò che serve al bridge. Negli anni Settanta le assemblee elettive ed i consigli federali erano formati da presidenti di associazioni, da appassionati di bridge, da gente che aveva la passione per l’articolo 1 dello statuto: la diffusione del gioco. Oggi in Federazione non ci sono praticamente presidenti di associazioni, e le associazioni stesse son state strumentalizzate a copertura di attività per così dire pseudo-commerciali. Quindi si rischia di fare del bridge un utilizzo che non è coerente con le finalità dello statuto della Federazione. Molte associazioni son diventate dei torneifici, i corsi vengono fatti semplicemente per fare corsisti: non c’è il fine del coinvolgimento ovvero di fare di un neofita un appassionato, un socio della Federazione e quindi partecipe delle attività di bridge non solo di gioco ma anche sociali.

Mi stai dicendo che probabilmente è stata messa tra parentesi l’idea del bridge come cultura?

Il progetto ‘Bridge a Scuola’ non prevedeva la ricerca di piccoli bridgisti campioni, tipo l’insegnamento degli scacchi nella ex Unione Sovietica dove si selezionavano tre milioni di ragazzi per ottenere sei campioni. Quel progetto si proponeva, al contrario, la divulgazione e la conoscenza del bridge con notevoli risultati collaterali: portare l’interesse al bridge nell’ambito delle famiglie; la possibilità di creare un’area comune tra genitori e figli sulla base di un hobby condiviso; la possibilità, infine, per i ragazzi che l’avessero voluto, di legarsi alle associazioni e ai circoli, ovvero a quelli che dovrebbero essere gli elementi base che compongono la Federazione. La Federazione è, appunto, la confederazione dei circoli: non un ‘ente’ a sè bensì l’espressione della base. La scuola doveva essere un momento di cultura, solo successivamente i ragazzi avrebbero dovuto avere una veicolarizzazione, non obbligatoria ma sentita, verso la pratica sportiva. Questo avrebbe altresì creato un tessuto connettivo più giovane, svecchiando l’ambiente e rendendolo più divertente piacevole da frequentare. Ora, tutto questo è stato travisato e si è cercata l’efficienza attraverso la burocrazia. Per farla breve, il problema di base è uno solo: il bridge è in mano a incompetenti. Il bridge giocato, insegnato, scritto … non ammette approssimazione. Il bridge è un gioco statistico: molti non colgono la differenza tra approssimazione e statistica.

Ma quando tu frequentavi il circolo da giovane, l’ambiente com’era?

Io ho avuto la fortuna a Torino di incontrare al circolo Benito Garozzo. La cosa più bella che io ricordo, oltre all’amicizia che poi abbiamo coltivato, è stato lo scambio culturale operato da Benito. Se oggi il bridge è un gioco ‘italiano’ lo dobbiamo a Garozzo.

E’ così difficile svecchiare oggi l’ambiente del bridge?

Non è difficile, nella situazione attuale è quasi impossibile. Se tu frequenti un circolo di bridge ti accorgi che c’è un propietario a cui poco interessa del bridge ma molto invece di far dei tavoli o dei corsi e prendere le quote di iscrizione.

Parliamo invece di una tua attività collaterale all’insegnamento: tu hai scritto molto di bridge. Quale è il libro che hai più amato scrivere?

Effettivamente ho scritto molto di bridge con mia moglie, Marina Causa. Il più famoso è certamente ‘Appunti di naturale’ definito da Giorgio Belladonna come il miglior libro di bridge mai scritto al mondo. Forse è il più amato da me perchè è stato il primo che ho scritto. Oggi sulla base della mia esperienza, però, lo imposterei in maniera leggermente diversa: ritengo tuttavia che ha oggi come allora delle valenze notevoli, soprattutto per l’utilizzo didattico. Ma se devo dirti quale testo amo davvero di più, allora devo citarti testi scritti da altri.

Allora, Toni, quali sono i tuoi libri preferiti di bridge?

Sicuramente quelli di Hug Kelsey ‘Killing defence at Bridge’ e ‘More killing defence at Bridge’, quest’ultimo, mai tradotto in Italia, è veramente un testo fondamentale.

Toni, per oggi ci fermiamo qua: mi prometti una seconda intervista? Vorrei parlare di te come campione e ho tante altre cose che vorrei chiederti….

Va bene, a presto allora.

A prestissimo.

 

leggi la seconda parte dell’intervista: clicca qua!   

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